Storie d’altri tempi: Angelone e il coprifuoco

Durante la seconda Guerra mondiale, gli scannesi non riuscivano a mandar giù l’idea che, a nessun’ora dopo il tramonto, si potesse uscire, per paura di essere acchiappati dai soldati tedeschi che erano sempre pronti a brandire il mitra se qualcuno non avesse rispettato la regola del coprifuoco.
Le persone (soprattutto i giovani) che erano viste per le vie del paese dopo le diciannove, venivano immediatamente arrestate e condotte al carcere che si trovava nella scuola elementare. Accadeva, però, che alcuni prigionieri venivano scarcerati il giorno seguente perché i tedeschi erano facilmente corruttibili e quindi, al prezzo di una decina di uova o altri generi alimentari, ridavano la libertà ai “donatori”.

Una volta un certo giovane di nome Angelo, soprannominato Angelone, era diventato chissà come amico di un generale tedesco che abitava nei ricchi palazzi della cittadina. “Quest’amicizia” permetteva soltanto ad Angelone di poter uscire dai confini del paese armato di un piccolissimo fucile, per andare a caccia nei boschi montani, e ogni preda catturata nelle sue battute di caccia doveva andare al generale amico. Non vi era giorno, quindi, che non facesse comparsa sul tavolo del tedesco una lepre in salmì o una pernice alla cardinale. Una triste sera d’inverno nemmeno Angelone riuscì a scappare all’amara legge del coprifuoco e fu rinchiuso, insieme con altri giovani scannesi, in prigione. Mentre il nostro povero amico era bloccato dietro le sbarre, ecco che gli si presentò innanzi il famigerato generale tedesco. Il giovane pensò che il tedesco lo avrebbe liberato, ma non fu così perché il generale, vedendolo, disse con tono di presunzione: «Una notte o due in gattabuia non te le toglie nessuno!». Ma Angelone ribatté con sicurezza: «Peggio per te!». E il generale urlò: «Come ti permetti? Lo sai chi sono io? Per questo resterai qui altri cinque giorni!».

Lo scannese, allora, fece una proposta al generale: «Facciamo così, domani mattina mi farai uscire e se riuscirò a rubare un paio di quegli stivali (e indicò un mucchio di stivali neri di cuoio che erano messi in un angolo dello stanzone) tu mi farai una bella certificazione scritta nella quale sarà detto chiaramente che io, Angelo De… ho il permesso di girare per il paese con stivali tedeschi, per meriti di guerra». Il generale accettò. L’indomani Angelone uscì di prigione. Il teutonico, vedendolo senza gli stivali, scoppiò in una risata beffarda ma era troppo presto per festeggiare. Lo scannese, infatti, con aria indifferente, proseguì avanti per una decina di metri fino a quando non si chinò a terra ed estrasse dalla neve (che quel giorno cadeva fitta su Scanno) un paio di stivali tedeschi che la notte precedente aveva gettato dalla finestra della sua cella. Il generale, rimasto di stucco, fu costretto a prendere carta e penna e fare la certificazione ad Angelone.

Ad Angelone la “vittoria” degli stivali non interessava. La vera cosa che lo riempiva di felicità era la sconfitta dei tedeschi e della loro prepotenza contro la furbizia e la semplicità di un unico uomo.

Carlo Di Carlo

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