Gioiello elegante e di squisita leggerezza, all’apparenza semplice ma in realtà colmo di valenze rituali come forse nessun altro ornamento muliebre può esserlo. La cannatora, tradizionale girocollo che ornava e ancora orna il collo delle donne abruzzesi, deve il suo nome proprio al dialettale “canna”, cioè collo, da cui il popolaresco “cannarozzo” per “gola” comune in più dialetti.
L’oro, con il suo colore giallo, ricordava il sole e il grano, da sempre simboli di fertilità, regalare ad una sposa oggetti in oro equivaleva ad augurarle di godere sempre di buona salute e di avere tanti bambini. E la cannatora, aggiungiamo, veniva offerta alla Madonna per ottenere una grazia, per fare un voto o per grazia ricevuta. Oggi questi significati si sono persi, ma resta la cannatora che fa il vanto di numerosi orafi, in particolare nell’area dell’Abruzzo interno e degli altipiani maggiori come Pescocostanzo e Scanno.
L’origine della cannatora appartiene comunque agli albori della storia abruzzese, e in particolare alla civiltà pretuzio-picena dell’area teramana. Lo testimonia il ritrovamento di questo monile in varie sepolture femminili del VII e VI secolo a.C., come quella di straordinaria bellezza conservata presso il Museo di Campli. La cannatora pretuziana testimonia così da tempo immemore la raffinatezza e la gentilezza d’animo beneaugurante delle genti d’Abruzzo.
Composta di piccole sfere vuote (o vaghi) d’oro a basso titolo, talora in argento, sono realizzate battendo un punzone di ferro, con uno stampo inciso a rilievo, dentro mezze coppette in lamina, realizzando così un rilievo a sbalzo. Create a volte a traforo o in filigrana, le sferette venivano legate da un nastro di seta di vivace colore, il più delle volte rosso o carnicino, che allacciava sulla nuca. Oggi le sfere sono in genere tenute insieme legate da un filo d’oro.
La cannatora nella cultura abruzzese è un indice di status sociale, anzi di status maritale in quanto era uno dei gioielli che venivano donati dalla suocera alla futura nuora nel corso di una solenne cerimonia che univa le due famiglie, quasi due clan, in un legame di parentela strettissimo suggellato dalla “parola data”. La madre dello sposo, all’approssimarsi delle nozze, si recava a casa della futura nuora per il rito detto “appenne l’ore”, cioè per “appendere”, cioè legare e fermare addosso alla ragazza gli ori che venivano a costituire quasi un bene dotale, manifestando l’accettazione della famiglia alla nuova componente. Di solito la cannatora veniva accompagnata anche da un paio di orecchini, le “ciarcèlle“ o le “sciacquajje”, orecchini a navicella lavorati a traforo, con figure centrali e piccoli pendagli allusivi di prosperità e benessere.
I significati erano peraltro molteplici, trattandosi di un gioiello con poteri apotropaici, di tutela della salute (non a caso si allacciava intorno al collo) ma anche di prosperità e di fertilità. I vaghi d’oro altro non rappresentavano in fondo che l’augurio di numerosa progenie. “In passato” afferma l’antropologa Adriana Gandolfi, “non c’erano medicine ed ospedali e le morti di parto erano all’ordine del giorno (…). In mancanza di cure ci si affidava agli influssi benefici di oggetti in oro e argento.
Gabriele Di Francesco