La campanella situata sul primo pianerottolo delle scale dell’asilo d’infanzia “Buon Pastore” di Scanno aveva un suono così forte da tapparsi le orecchie, era simile all’allarme dei pompieri chiamati a raccolta per andare a spegnere un incendio. Il volume probabilmente era stato sintonizzato in rapporto al nostro continuo vociare.
“Tu ci vai all’asilo? E certo che ci vado. Bravo, ci devi andare perché lì ci sono tanti amichetti e amichette…”. All’età di appena tre anni non è che si pensasse molto agli altri, bisognava prima conoscersi meglio, ambientarsi e soprattutto trovare la risposta alla seguente domanda: ma qui che ci sono venuto a fare? L’accoglienza, c’è d’ammetterlo, era di quelle di cui non ci si poteva lamentare. Le suore, almeno nei primi momenti, erano state abbastanza carine ed affabili, forse non sapevano ancora con chi avrebbero avuto a che fare. Ma si che lo sapevano…prima di noi chissà quanti altri ne erano passati.
Sul finire degli anni ’50, le famiglie in paese contavano numerosi figli a carico dei quali, con i papà all’estero per lavoro, se ne occupavano principalmente le mamme, i nonni e, grazie a Dio, le suore dell’asilo. Stare dietro a quasi duecentocinquanta bambini non era affatto semplice ma Santa Pazienza e la Provvidenza, come diceva Don Bosco, avrebbe dato una mano. Il compito più arduo era quello di farci stare insieme, di insegnarci un po’ di disciplina, il rispetto per gli altri, di non strillare, di stare composti in fila per due e pregare…insomma un minimo di educazione per cominciare. I pianti erano all’ordine del giorno come i mal di pancia, le grida isteriche e i capricci di ogni genere rimanendo ben attaccati al collo delle mamme. I primi giorni furono tremendi, segnati da diversi graffi in faccia e sulle braccia. “Chi è stato, con chi hai litigato? Non stai mai fermo. Ti sta bene, così impari”. Le suore in proposito avevano il loro ben da fare per dividerci, la più energica e decisa era sicuramente suor Eugenia che senza mezzi termini prima ci strattonava con vigore e poi ci metteva in castigo. Se tutti gli altri avevano fatto una sola pagina di aste, ai “lottatori” ne sarebbero toccate almeno dieci. Per chi invece non aveva mangiato nulla al refettorio o non aveva fatto il bravo durante il riposino pomeridiano con la testa abbassata sul banchetto, erano previste altre piccole punizioni come quella di essere esclusi dalle recite di Natale e Pasqua. E chi di noi, poi, lo avrebbe detto ai propri genitori? Recite a parte, che comunque ebbero il loro bell’effetto per l’emozione che si provava davanti a tutta quella gente, imparammo con una certa celerità come stare al mondo e che l’educazione viene prima di tutto. A quelle monache, come le chiamavamo, ben presto andò tutta la nostra gratitudine e il nostro affetto.
Continuammo in seguito a frequentare l’asilo in occasione del catechismo, come chierichetti e anche durante il periodo estivo per la colonia quando si andava in pineta a costruire barchette con la corteccia dei tronchi di pino. Praticamente eravamo di casa. Insieme a noi le ragazze imparavano a “mettere i punti”, cioè a cucire, e a lavorare al tombolo. La domenica all’oratorio si passava il tempo a giocare, a disegnare i cartelloni e a preparare i vari spettacoli; tutto da mandare a memoria e a cantilena, cosa difficilissima per via del dialetto tant’è che l’imbuto diventava “muttillo” e la padella “la fressora”. In occasione di qualche ricorrenza o alla visita del parroco non erano ammessi errori di alcun genere e, mentre l’occhio vigile delle suore si faceva più severo, si intonava la solita canzoncina: “viva, viva il direttore, ecc.” con a seguire applausi a non finire.
Ogni santo giorno ci rendevamo conto di aver fatto un passetto in avanti e d’iniziare perfino a capire le nostre amichette sempre a posto con il loro grembiulino bianco stirato a puntino, il fiocco rosa e i capelli tirati all’insù. E quando stavamo male con la febbre o dopo essere caduti rovinosamente per l’esagerata foga di correre, ecco ancora le suore a venirci incontro e a darci coraggio poiché presto sarebbe passato tutto, come quegli anni volati via troppo in fretta.