Chissà perché, una sessantina d’anni fa, ci sembrava così eccezionale bucare una piccola diga fatta con la neve al calar della sera.
Il sole di primavera stava ormai ripulendo quasi tutte le stradine di Scanno; il calore dei suoi raggi andava sempre più aumentando e gli ultimi mucchi di neve ghiacciata si scioglievano rapidamente giorno dopo giorno. Non c’era tempo da perdere, pertanto una moltitudine di ragazzini si dava appuntamento ogni pomeriggio nei pressi della Madonna delle Grazie per costruire il primo “pozzo”. Mentre più giù, all’altezza della Racelletta, io ed altri amici avevamo rastrellato più neve possibile per preparare un pozzo molto più grande. Non potendo continuare a giocare con le slitte, le nostre attività pomeridiane si concentravano principalmente nel raccogliere l’acqua nei pozzi facendo attenzione che questa non ne superasse gli argini che nel frattempo, fino alla Codacchiola, erano diventati una decina. Infatti, man mano che passavano le ore, i pozzi si andavano riempiendo quasi al massimo tanto da richiedere continuamente il nostro intervento con nuovi blocchi di ghiaccio per alzare gli sbarramenti. E lo sfizio era proprio tutto lì, e cioè tenere l’acqua imprigionata il più possibile per la “spurata” finale. Muniti di “palelle” e qualche secchio sgangherato ci si impegnava per raccogliere tutta l’ultima neve anche nei punti più nascosti, sotto le “cemmause”.
Non mancavano i soliti scherzi: “guarda…vola l’asino”, e alla pur minima distrazione, una leggera spinta, e ci si ritrovava dentro l’acqua bagnati fino al collo. A turno questa specie di battesimo toccava un po’ a tutti e la speranza era quella di asciugarsi prima di tornare a casa altrimenti erano guai. Ben che poteva andarci era di prendersi un bel raffreddore per assentarsi a scuola il giorno dopo, scaricando la colpa o su quel compagno o sull’essere accidentalmente scivolati.
Il livello dell’acqua saliva gradatamente rumoreggiando lieve fra i vecchi “pallandi”, mentre il sole quasi dispiaciuto scendeva dietro il Carapale. Il grande momento, tanto atteso, stava per arrivare. Quasi estasiati dall’ottimo lavoro svolto, si restava impassibili ai rimbrotti degli adulti, i quali non mancavano d’informarci che in quel modo era quasi inevitabile allagare qualche “suttana”. L’unica cosa da fare era quella di dare il via ad un bel fiume d’acqua da riempire gli altri pozzi più a valle; di squarciarli per aumentarne ulteriormente la portata, così travolgente da abbattere tutto ciò che avrebbe incontrato al suo passaggio. Le grida per aggiornarci se andasse tutto per il meglio aumentavano di pari passo con l’approssimarsi dell’oscurità. Mancava ormai veramente pochissimo. Senza dirlo ci dispiaceva non poco porre fine ai giochi, quasi come quando si distrugge un castello di sabbia al mare dopo averlo costruito con cura, ma ormai era così tanta la voglia di scatenare l’inondazione che non si stava più nella pelle.
Pronti allora, cominciando dalla parte alta, il primo pozzo fu tagliato di netto nella zona centrale con dei bastoni. L’acqua cominciò a scendere con grande rapidità e arrivò al secondo pozzo con tanta di quella forza da portarselo con se senza alcuna resistenza. I restanti sbarramenti subirono in sequenza la stessa sorte. Inutile dire che l’eccitazione aumentava così come la portata del fiume. Ci sembrò di essere dentro ad un film ma l’avventura purtroppo durò solo pochi minuti.
Era ormai ora di tornare a casa, quando la grande emozione provata cominciava già a lasciare il posto ai primi fastidiosi e rumorosi starnuti.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione