Ritratti di un mattino

Era una delle prime belle giornate di primavera. Il sole del mattino emanava una luce perfetta, era quindi il caso di approfittarne per una visita a centro paese destinazione Castellaro. Avevamo appena superato il negozio di Nicasia in via del Corso e arrivati quasi vicino al vapoforno di Scardella, presi da un istinto incontrollabile, iniziammo con i primi clic per fotografare il campanile del Carmine, la casa pendente che avevamo alle spalle ed il “cuttrillo” dove abitavano Adele e Orlando. Il buon profumo di pane caldo appena sfornato ci bloccò lì sul posto per un bel po’ di tempo quando all’improvviso da un portone fece capolino Maria Cristina, la “fornarina” dal viso dolce e spaesato, incuriosita dalla nostra presenza e non tanto disposta a farsi immortalare. Ma quel suo sorriso appena accennato catturò tutta la nostra attenzione.

Proseguendo giù per il Grottino, lì dove non è possibile arrivarci con le auto, incontrammo Maria Ripalda intenta a ripulire con cura tutti i suoi oggetti in ottone ponendoli in bella mostra ad asciugare al sole. Già il suo nome era tutto un programma e il suo vestire il costume giornaliero con disinvoltura, incurante del peso eccessivo della gonna di panno a pieghe sotto la “mandera”, non poteva assolutamente sfuggire ai nostri innumerevoli scatti… lei con garbo ci invitò ad entrare in casa per un caffè.

La mia prima macchina fotografica la comprai da Donato in piazza, mentre quella che stavo usando era del mio amico; aveva il sistema automatico, una delle prime che ad ogni scatto il rullino in pratica girava da solo. Ma la grande novità riguardava la stampa, finalmente a colori su carta Kodak. Intorno a mezzogiorno ci avviammo giù verso “ju pusciarielle”, accompagnati da quell’inconfondibile buon odore di cucina casareccia che si espandeva nell’aria al gusto soprattutto di minestra da accompagnare con la bruschetta e da riscaldare all’occorrenza la sera, così d’avere mezza cena già pronta. Da quella parte del paese si arrivava fino alle stalle che costeggiavano il fiume, era il tempo in cui non si potevano più tenere le galline sotto le “cimmause” e per strada, dove ormai i gatti la facevano da padrone. Le rondini avevano ormai fatto ritorno da un pezzo ed avevano quasi del tutto ricostruito i propri nidi sotto le grondaie.

Si stava veramente da Dio e gli incontri con la gente erano frequenti e cortesi, tutti pronti sempre al saluto seppur con una certa fretta, in quanto ognuno aveva più o meno il suo ben da fare. In fondo alle scale trovammo Mario Nannarone (mio nonno), un uomo tutto d’un pezzo di una simpatia unica pronto a raccontarci qualcosa della sua vita. Partito da giovane per fare il soldato, si era ritrovato nell’arma dei carabinieri a completo servizio della patria. Non erano tempi tranquilli e ben presto lasciò con dispiacere la “benamata” per ritornare a fare quello che sapeva fare, e cioè il pastore. Andare con le pecore era un’attività molto dura e lui ne era più che consapevole ma non poteva farci niente se solo in questo si sentisse effettivamente a suo agio. Pian, piano aveva messo su un gregge di circa seicento unità ed aveva aperto da qualche anno, con ulteriori sacrifici, una macelleria nei pressi della fontana Sarracco. La sua era una famiglia numerosa con cinque figlie femmine, tant’è che, di fronte all’evidenza, si considerava in netta minoranza. Ma non c’era ragione per lamentarsi in quanto tutte da tempo erano di già convolate a nozze e delle cose brutte meglio non parlarne.

Tornando a noi, sapevamo che era usanza, allo scoccare dei dodici rintocchi di mezzogiorno, ritirarsi per il pranzo, e presto ne avremmo avuto conferma. Ci soffermammo ancora un po’ nelle vicinanze, mentre Nicola stava preparando i suoi muli, pronto per andare in montagna per un altro carico di legna.

La Scanno della seconda metà degli anni ’60 era in continua fibrillazione, una Scanno “spaesata” che stava cambiando rapidamente verso il turismo con la costruzione di nuovi alberghi e nuove strade. I pareri erano abbastanza contrastanti e il futuro era già lì dietro l’angolo ma a Mario, che in proposito non avanzò alcun commento, interessava solo quello c’era da fare nell’immediato così che, nell’allontanarsi frettolosamente, ci salutò dicendoci: “uhè quetrè… ve sctete voje? Cè fatte tarde, è ora de maggné, vulete favureje?”

Il tempo era volato via in un baleno, sapevamo che quei momenti così particolari non li avremmo più rivissuti.   

Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959-1979) di Pelino Quaglione

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