La fogliolina sulla brace (La domenica delle Palme)

Le prime considerazioni di mio cugino sull’essere al mondo, così come sull’aldilà, sono state sempre molto semplici e superficiali. Quasi tutti in paese erano soliti affidarsi soprattutto al volere di Dio pur condizionati da parecchi pregiudizi, strane credenze e poche certezze.

Fin dalla sua nascita, nel 1954, gli avevano detto che non sarebbe mai stato solo; accompagnato da un angioletto che lo avrebbe seguito ovunque. Cioè gli sarebbe stato sempre alle calcagna o dietro le spalle con le sue ali dorate e la sua bella aureola illuminata. Comandato da Dio, sapeva di certo, che questo suo angioletto avrebbe continuamente riferito di lui e di tutte le sue malefatte. Pertanto doveva essere buono, stare attento a questo e quello, non dire parolacce, non disubbidire ai genitori, non commettere danni, andare al catechismo, a scuola e studiare. E doveva soprattutto ricordarsi di rientrare a casa puntuale all’Ave Maria, intorno alle cinque di sera, se no erano guai. Maria era il nome della campana più grande che si trovava a Scanno, dal suono forte e pomposo, ma ‘sta campana a quell’ora non gli era mai piaciuta, nemmeno a me. I suoi rintocchi arrivavano sempre quando non dovevano arrivare; proprio sul più bello quando i giochi si facevano interessanti e stavano per decretare chi aveva vinto e chi aveva perso.

Nel giorno di Domenica delle Palme, con tutte le campane a festa: Gesù in processione e gli angeli con lui, compreso il suo, mio cugino aveva la sensazione di sentirsi un po’ più libero, si fa per dire. “Se jete alla messa? Ada je alla chiesa, auogge è la demeneca de le Palme”…mia nonna a cantilena e mia zia in coro a seguire…e “riporta la Palma bendetta, viestete bbuone, mittete la camicia”. A mio cugino, di quasi sette anni, la camicia e la cravatta non erano mai piaciute. Suo padre invece era solito affrontare tutte le feste e le domeniche con giacca e camicia come le altre persone adulte. La piazza era sempre piena di gente e ognuno si preoccupava principalmente di non dare modo agli altri di parlare male. Inevitabili gli incontri con le donne del paese che, all’uscita dalla messa, scrutavano per bene ogni cosa e parlavano e sparlavano di tutti.

Se il comportamento di mio cugino durante la messa non era stato sufficientemente tranquillo e cioè se si era lasciato andare a qualche risata o minimamente scherzato con un altro chierichetto, mia zia già lo sapeva, non si riusciva a capire come fosse possibile e con tanta velocità. Egli ha sempre pensato che le suddette signore erano d’accordo con il suo angelo. La palma benedetta, prima di pranzo, stava per fare il suo ingresso in tutte le case, compresa quella di mia zia, e questo lo agitava non poco. Aveva assistito l’anno prima a una specie di rito ma non ci aveva fatto caso, forse perché era più piccolo e non gli interessava. Era curioso e provava un certo senso di paura che ciò si ripetesse anche quest’anno. Mia nonna, che era anche la sua, di ottant’anni suonati, vicina agli ottantuno il prossimo mese di maggio, era già lì, nella penombra, china sulla stufa a ranocchia; si accingeva ad aprire lo sportelletto sul davanti e, spingendo i tizzoni ardenti sul fondo, stava tirandosi a se la brace rosso fuoco. Dopo aver staccato con forza la foglia dal rispettivo ramoscello, che poi era d’olivo e non di palma come avevamo sempre creduto, si preparava a pronunciare, per due volte, quella strana frase un po’ mistica e un po’ magica: “palma, palma benedetta, dimme auanne se campe n’autre anne?”, “palma, palma benedetta, dimme auanne se campe n’autre anne?” E buttata la fogliolina sulla brace si aspettava in silenzio se questa saltellasse poiché era un segno di vita e noi lo speravo con tutto il cuore. Quando è toccato a mio zio, la foglia è rimasta lì ferma, immobile e poi è bruciata. Questo per mio cugino è stato come morire: un “segno” brutto che non faceva presagire nulla di buono e che condizionò la sua esistenza per tutto il resto dell’anno fino al 31 dicembre del 1961, data in cui sarebbe terminata per sempre quella tremenda profezia, così tanto triste e terribile per un bambino della sua età. Innamoratissimo e molto legato al padre, avrebbe voluto subito chiedere al suo angelo se si potesse fare qualcosa, se lo poteva aiutare ma gli sembrava stupido e poi non lo aveva mai visto, ne sentito, tra l’altro lo aveva sempre considerato più uno spione che un suo protettore. La scappatoia, pensò, forse poteva essere quella di diventare buono per farselo amico…poiché lo avrebbe detto a Dio. Fino ad allora, mio cugino era stato catalogato fra i monelli del paese, fra quelli che combinavano sempre guai…ma qualcosa stava per cambiare. E giorno dopo giorno, un’azione buona oggi, una domani …il tempo non passava mai e i suoi pensieri erano rivolti costantemente al suo papà e al primo gennaio 1962, quando finalmente tutto finì nel miglior dei modi.

Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959-1979) di Pelino Quaglione

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