La cosa peggiore che ti poteva capitare, dato che partivi svantaggiato, era quella di dover assistere il sacerdote nell’espletamento delle firme al termine della celebrazione di un matrimonio. Gli altri chierichetti nel frattempo si erano già tolti i loro camici e sicuramente si erano posizionati il più vicino possibile all’uscita, mentre i numerosi invitati erano intenti ad approvvigionarsi di riso, confetti, pasta e monetine. L’attesa diventava frenetica quando rimaneva solo da sbrigare l’iter delle foto presso l’altare con i familiari più stretti e i testimoni. Quindi non rimaneva che fare tutto in un lampo: via la casacca bianca, poi la tunica rossa e di corsa dalla sacrestia verso la tanto desiderata “sciarra”. Non era facile intrufolarsi tra la folla che assiepava la gradinata ma, essendo ancora piccolini di appena dieci anni, riuscivamo comunque ad arrivare davanti a tutti. Ciò che invece ci frenava era, come dire, quella forma di timidezza che ancora non riuscivamo a capire cosa fosse. Chi la confondeva con il non essere sufficientemente “sveglio”, chi con il non essere normale come tanti altri e chi infine con il non essere abbastanza coraggioso. Tutte considerazioni che non riguardavano minimamente le nostre coetanee, allora molto più attente a non sporcarsi i vestitini. Ma di fronte all’opportunità d’accaparrarsi diversi soldini e confetti, c’era poco da stare lì a riflettere riconducendo il tutto nella seguente considerazione: “io mica sono più fesso degli altri!”.
Ecco finalmente gli sposi e via alla “sciarra”; tra urla di gioia, applausi e auguri, cui noi non facevamo per niente caso, così concentrati nel tuffarci nella mischia cercando, scansando il riso, di raccogliere il più possibile solo le monete e i confetti tanto da riempire tutte le tasche, perfino i calzini, con il rischio di buscarsi anche qualche calcione.
Quando mai nei decenni 1960/70, a seguito di grandi sacrifici, i genitori dei novelli sposi si sarebbero l’asciati sfuggire l’occasione di esternare quel senso di abbondanza acquisita a cominciare proprio da una più che ricca “sciarra?”. E lo sapeva bene soprattutto il sacrestano che ci cacciava ogni volta via a male parole usando perfino il bastone senza riuscirci: noi così scaltri e veloci, felicissimi di andar via con l’intero bottino.
Ma la “sciarra” non era solo questo, il termine veniva molto usato anche quando per esempio a qualcuno gli cadeva una cassetta di frutta, piuttosto che i piatti ad un cameriere o le biglie ad un compagno, situazioni tali da generare interminabili risate. Altra cosa invece riguardava la separazione di due o più persone: “ene sciarrate”, ovvero si sono allontanate e quindi divise. Locuzione che veniva usata principalmente quando due fidanzati si lasciavano o litigavano, da non confondere con: “a jettate la varda!”, riferito ad una persona arrabbiata, simile a un cavallo imbizzarrito che si libera della sella…cosa ben più grave.
Sebbene il termine indicasse qualcosa da liberare in aria, sparpagliandola e/o di cui liberarsi, ben venga, dunque, la “sciarra” degli sposi, intesa ovviamente come la manna caduta dal cielo.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione