Sul finire degli anni ’50, i cosiddetti quartieri erano il vero cuore pulsante dell’intera nostra piccola Scanno. Ci sembrava così minuta forse perché era piena di gente ma anche per il fatto che non c’era permesso di andare oltre il nostro rione. La periferia di fatto non esisteva; se si escludevano quelle poche case in collina e qualche nuovo albergo in costruzione, la maggior parte della popolazione viveva dentro le mura, compresi noi bambini di 5/6 anni intenti a capire già in tenera età come funzionasse il mondo degli adulti. Per cominciare, dopo il battesimo religioso, prima o poi ne avremmo avuto un altro e altri ancora da zia Enedina in quel della Racilletta poiché, al minimo baccano, ci tirava giù delle copiose secchiate da rimanerci davvero per quanto era fredda l’acqua, e tante altre sgridate con la scopa in mano, rincorsi fin verso alla Codacchiola. Al quartiere di Sant’Antonio, nei pressi, ci si poteva accedere solo se si frequentava la chiesa e il convento dei frati, e certamente per andare a scuola all’Edificio, ma con i coetanei che vi abitavano non c’erano problemi, tanto da ritenerci quasi “gemellati”. A monte, invece, non c’era permesso nemmeno d’arrivare alla vicina piazzetta della Madonna delle Grazie, figuriamoci all’Ara, sulla strada di fuori Porta della Croce. Così come al Castellaro, a Cardella, all’Istofumo e all’Olmo, con Ruggero che la faceva da padrone… e si sentiva per la sua voce imperiosa e baritonale.
Alla Racilletta, entro i nostri confini, mentre correvamo dietro a gatti e galline, imparammo da subito a comprendere cosa volesse dire aiutarsi a vicenda e quale fosse il vero significato del “vicinato”. Infatti, ci si dava una mano in tutto e per tutto, quasi in ogni occasione: sia per il rimessaggio della legna, per il lavaggio della lana, per la bollitura dei pomodori e loro imbottigliamento, per togliere la neve, per la lavorazione della carne di maiale, ecc.; sia anche per quando qualcuno stava male, per i funerali, per le nascite, ed infine soprattutto durante le tanto attese feste di nozze delle nuove spose di quartiere. Il mio era veramente speciale e non li mancava nulla: c’era Liborio il fabbro, il negozio d’alimentari Fratini, Fiorentino il falegname, Pietro con la mula, Vittorio il cantoniere, muratori e carpentieri, ecc.
Noi lì avevamo anche una seconda casa tutta nostra fatta con i cartoni che puntualmente s’inzuppavano con la pioggia e ci cadevano addosso, ma era bellissimo starci sotto. Col bel tempo invece giocavamo a pallone o con le spade di legno mentre le nonnine, accovacciate sui gradini, lavoravano a maglia, altrimenti spazzavano davanti casa per tenere la strada pulita. E le altre donne si recavano al forno e a prendere l’acqua alla fonte. Ogni tanto ci si prendeva a botte per niente generando non pochi litigi fra le famiglie ma, alla prima necessità, passava tutto. E poi arrivò Carlo il barbiere e tantissima gente a tagliarsi i capelli, c’era la fila, ci s’incontrava e ci si salutava. Carlo era una persona squisita e, anche se spesso ci sgridava, sotto, sotto se la rideva divertito, come quando solo in parte dava retta alle nostre mamme che ci avrebbero voluto sempre con la testa rasata. Carlo ci faceva sedere sopra un alto sgabello e i più piccoli sul cavalluccio, ci invitava di continuo a stare fermi, ma non era facile, così con pazienza e maestria dopo un po’ aveva già finito. Quando non vi erano clienti da servire, Carlo si dilettava a suonare la chitarra e anche la fisarmonica, la sua vera passione. Aveva dite abbondanti e non riuscivamo a capire come facesse a non sbagliare. Si allenava di continuo. In pratica da quel suo suonare a intervalli ne è venuta fuori la colonna sonora della nostra infanzia; canzoni accennate e arpeggi infiniti che davano un senso gioioso ed armonioso di tranquillità.
Fin quando da una finestra non si sentiva strillare zia Imelda che richiamava i figli a casa, o zia Aurora e altre zie, perché nel quartiere erano tutte zie, e ormai s’era fatto tardi.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione