All’età di 5/6 anni, nel 1959, scambiare la parola “elementare” con “alimentare” era un fatto abbastanza normale; insomma ci veniva spontaneo confonderci poiché avevamo sempre fame, non di certo di cultura ma di qualcosa da mettere sotto i denti.
I primi giorni di scuola, dopo l’asilo, con il maestro in cattedra a fare l’appello, furono senz’altro traumatici. Già solo la sua voce, piena, adulta e rimbombante, incuteva timore. Alla pronuncia dei nostri cognomi, scanditi con precisione, ognuno di noi doveva essere pronto ad alzarsi in piedi e rispondere presente senza esitare nel giro di un solo secondo, mai farsi trovare disattenti. Come si dice: “il buon giorno si vede dal mattino”. Chi veniva invece colto in fallo, buona parte della giornata se la passava dietro la lavagna.
A detta di alcuni amici: io, Angelo, Carmelo, Donato, ecc., eravamo stati fortunati a capitare con il maestro Petito, persona preparata, autoritaria quanto bastava e non affatto “cattiva” come qualcun altro. Certo a volte ci sgridava e ci metteva in castigo ma non più di tanto da renderci ancora più difficoltosa la nostra allora tenera esistenza, come avveniva in altre classi. La nostra era composta da una trentina di alunni, poi c’era la femminile con la maestra Filomena e poi la “famigerata” mista. Proprio qui, un mio amico un giorno non si presentò a lezione passando tutta la mattinata sotto l’omonimo ponticello di Sant’Antonio; fu probabilmente il primo in assoluto all’elementari a marinare la scuola di sua spontanea volontà. Di fatto un “eroe”, cosa mai avvenuta, cinque ore sull’argine di un fiume, sporco e maleodorante, non fu certamente una buona idea.
Quei cinque anni passarono in un battibaleno; imparammo a scrivere e a leggere più o meno bene, qualche macchia d’inchiostro sui quaderni con il pennino, qualche occhio nero per le immancabili spinte e quasi tutti promossi tranne tre o quattro già ripetenti. Così ci ritrovammo insieme alle medie nel 1964 dove, formate le nuove classi, avevamo più di un professore.
Chi può dimenticare quello d’italiano il signor Primavera con la sua nuova Fiat 128 coupé special beige, dalla quale dovevamo tenerci a più di due metri di distanza? E sempre Primavera, impeccabile nella sua eleganza, ci raccontò di un fatto alquanto curioso. In pratica a un incontro con i genitori, la mamma di Vittorio li raccontò che a suo figlio non si poteva dire niente poiché questo rispondeva sempre “che le prete n’mene”. Lui, ne era sicuro, aveva capìto che il ragazzo tirava le pietre alla madre e non che fosse un intercalare paesano dal significato “a brutto muso con fermezza”. Ci ridemmo su per qualche giorno per poi tornare a studiare, con l’italiano non si scherzava, abituati a parlare in dialetto. Tanto è vero che per il libro su Hiroshima e Nagasaki, inerente la tragedia della bomba atomica, la lettura in classe spettava a lui e soltanto a lui. A noi non era permesso poiché troppo impegnati a non sbagliare le parole e meno a capirne il significato. Non ce lo disse apertamente ma: “grande, mitico professor Primavera”.
In scuola media o anche detta scuola di mezzo, prima di passare alle superiori, non si è “ne carne, ne pesce”. È un’età strana in cui si dovrebbe tralasciare un po’ il gioco. È un’età dove si cominciavano a fare paragoni: “pija mmidia”, guarda Graziano che è il più bravo della classe o Claudio…!”. Un’età in cui cominciammo anche a capire che dovevamo impegnarci molto di più, che poi a Sulmona sarebbe stata dura e che bisognava avere le basi. E poi c’erano le ragazze e le prime cotte ma non avevamo ancora capito come scendere dalle nuvole.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione