Il “fenomeno” che si verificò nell’autunno/inverno del 1973 a Scanno presso il convento di Sant’Antonio, ebbe sì una sua durata limitata al periodo ma comunque abbastanza efficace da rompere certi equilibri. Infatti in paese da sempre i luoghi ufficiali di riferimento, intesi come punti di aggregazione sociale giovanile, oltre alle confraternite, erano senza dubbio la parrocchia e l’asilo. La prospettiva quindi di avere a disposizione dei locali siti nella parte alta del Convento, in poco tempo permise la presenza di un buon numero di ragazzi che si ritrovò insieme probabilmente senza accorgersene, spinti semplicemente da una gran voglia di fare qualcosa di diverso, unita, se si può dire, a quei valori religiosi che spesso a quell’età possono sfuggire. Essenziale fu la visita di un gruppo di Boy Scout di Roma che, con i loro canti e la partecipazione alla messa, ci fecero capire che esisteva un modo nuovo di fare squadra molto diverso da quello dei club paesani; più partecipativo, meno noioso, da vivere all’aperto in totale rispetto verso gli altri in un clima di sana solidarietà.
Non è che non conoscessimo il vero significato dell’amicizia ma fino ad allora il concetto era abbastanza ristretto a una cerchia esigua di compagni: sempre gli stessi. Con il passare dei giorni, i locali si riempirono di tantissimi ragazzi e ragazze tanto da sembrare una vera ammucchiata che ci portò inesorabilmente ad identificarci come il “Mucchio”. Mai nome fu più azzeccato. Ognuno faceva ciò che voleva ma bisognava pur darsi un minimo d’organizzazione sia sul piano logistico (chi puliva e quando), sia su ciò che si voleva fare e sugli obiettivi da raggiungere. Pertanto, oltre ad assumerci il compito di allestire il presepe per Natale, mettemmo su un vero programma di doposcuola per gli alunni delle elementari e medie al fine di affiancarli nello svolgimento dei compiti e a disegnare, nonché per le lezioni di chitarra, senza dimenticare la partecipazione fattiva soprattutto alla messa della domenica. In proposito ben presto si divulgò la voce: “cummà fiene ‘bielle che quetreje”.
Per dimostrare a quei ragazzi di Roma che non eravamo del tutto sprovveduti e che ci tenevamo all’accoglienza, organizzammo, grazie ad una colletta, una cena interamente preparata da noi a base di penne all’arrabbiata e salsicce, dove tutti si adoperarono alla grande.
Così progettammo il presepe che, solo come venne pensato e quindi realizzato, fu veramente una sorpresa per tutti. In pratica si divideva in due parti, c’era quella che rappresentava un deserto africano con delle baracche poverissime e l’altra con grattacieli, negozi e superstrade, mentre la capanna della natività era posta al centro proprio sotto un viadotto a simboleggiare la netta differenza che c’era fra i due mondi ma anche l’unico modo per unirli.
Un giorno qualcuno avanzò l’idea di andare in gita. Entusiasti, non sapendo però come fare e dove andare, chiedemmo aiuto a padre Ferdinando che si mise subito all’opera proponendoci un paesino in provincia dell’Aquila denominato Arischia ai piedi del Gran Sasso, a pochi chilometri dall’area archeologica di Amiternum, dove si arriva attraversando la Valle di San Nicola in cui si trova il convento dei frati francescani, che già in epoca romana, per la sua collocazione, costituiva un punto strategico rispetto alle vie di comunicazione italiche e romane. Nella parte bassa del paese sostammo presso l’antica Fonte degli Archi (XII-XIV secolo), dove assaporammo non tanto il cibo che avevamo portato ma tutta quella voglia di libertà che ci girava intorno, nel bel mezzo della natura a contatto con la storia. Quella giornata all’insegna dell’allegria ci rimase impressa nella mente per un bel po’ di tempo, convinti di essere sulla strada giusta e di aver in qualche modo rinsaldato le amicizie.
Con l’approssimarsi delle belle giornate di primavera, il tutto svanì in un attimo; quel fenomeno passeggero, simile a un un soffio di vento, si sciolse inesorabilmente come un mucchio di neve al sole.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione