Sono trascorsi 12 mesi di morte, distruzioni, atrocità ed escalation. E non si vede la fine.
La notte fra il 23 e il 24 febbraio di un anno fa, quando il mondo ha saputo che la Russia di Vladimir Putin aveva davvero scatenato un’invasione vecchia maniera su larga scala in Ucraina. Da allora sono trascorsi 12 mesi di morte, distruzioni, atrocità ed escalation; e di quella guerra – ribattezzata in principio “operazione militare speciale” nella neo lingua del Cremlino – non si vede la fine. Se non nella prospettiva (o nelle velleità) di una qualche resa incondizionata del fronte nemico che nessuno riesce a spiegare come sia possibile pensare di ottenere evitando di dover giocare prima o poi a dadi con lo spettro di un’apocalisse nucleare. Un panorama di cui oggi restano le scorie, innaffiate dal sangue dei campi di battaglia dell’Ucraina in un panorama che fa sfumare in secondo piano persino gli incubi freschissimi dell’epocale pandemia planetaria da Covid.
La storia, in ogni caso, sembra aver girato pagina di nuovo. E solo il tempo potrà dire se verso qualcosa di meno peggio dei sinistri scenari odierni dopo una lunga parentesi di violenza, o verso un terrificante buco nero. Nell’attesa, a pagare il prezzo più alto continuano a essere gli ucraini: protagonisti nei loro confini d’una resistenza coraggiosa in questi mesi, superiore alle aspettative di Mosca e non solo; ma al contempo pedine d’una partita a scacchi (se non ancora d’uno scontro diretto) che li sovrasta in dimensione globale.
La sintesi di questo primo anno è una trama di lacrime e sangue, di bombardamenti e mobilitazioni, di denunce di crimini bellici efferati e bollettini di propaganda inevitabili in un contesto di guerra nel quale – come è arcinoto – prima vittima è sempre la verità: macinata dalla macchina della propaganda degli aggressori, e qualche volta pure dagli aggrediti, tra disinformazione, istinto di sopravvivenza, pressione sulla trincea interna, tentativi di condizionamenti incrociati con Paesi amici. Sullo sfondo di un innalzamento della posta per gli attori in campo fino alla sopravvivenza stessa di leadership, territori e Stati che minaccia i margini di un qualsiasi compromesso futuro.