Roma città invisibile negli scatti “bugiardi” di Ersilia Tarullo

Classe 1997, nata a Scanno, paese abruzzese incastonato tra i monti, da una famiglia in cui la fotografia è passione ed estro ma soprattutto mestiere dagli anni Cinquanta: nipote e figlia d’ arte, Ersilia Tarullo è fotografa e artista visiva. Durante l’ infanzia assorbe le influenze che respira in casa, se ne innamora, le fa sue. nel 2020 conclude il ciclo di studi triennale presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata della Capitale e nel 2022 frequenta il master di Fotogiornalismo che stimola la sua curiosità per le incredibili varietà del mondo.  La sua ricerca propone temi a carattere intimista, utilizzando la fotografia come mezzo espressivo privilegiato per un’ indagine individuale. I suoi scatti dedicati a Roma, dove oggi vive e lavora come freelance, sono stati selezionati per la mostra Sogni urbani, sino al 14 settembre da Zalib, a Trastevere.

Affermi che la fotografia abbia poco a che fare con la realtà oggettiva delle cose del mondo e che invece rappresenti bene il concetto di “inganno”…

“Ho scelto la parola inganno perché paradossalmente incarna l’essenza della fotografia: siamo abituati ad associare la parola fotografia a una testimonianza, a una prova empirica dell’esistenza di qualcosa: se è fotografato, vuol dire che, quel qualcosa esiste. In realtà la fotografia è bugiarda, è ingannevole, non è leale, per il semplice motivo che racconta tante diverse verità a seconda di chi le racconta e di cosa vuole raccontare. La realtà perde la sua concretezza e diventa fluida e puramente mentale, si realizza nella fantasia. Nel mio progetto, nello specifico, racconto la mia personale verità prendendomi la libertà, con una certa arroganza, di renderla universale, convincendo così il lettore che ciò che sto vivendo, probabilmente è ciò che vive anche lui. Quindi in questo senso la menzogna della fotografia è inconsapevole, è subita, è ingenua. Un po’ come l’oroscopo, la fotografia è manipolata e manipolatrice…”

Un libro che ti rappresenta è uno dei capolavori di Italo Calvino, uscito nel 1972: perché la scelta de Le Città Invisibili?

“ Vi sono due motivazioni principali. La prima è strettamente collegata al concetto di verità relativa: alla fine ciò che fa Marco Polo con la sua Venezia è cucirle addosso molteplici letture che la descrivono sempre diversa, non solo esteriormente: la loro struttura, la disposizione delle case e degli elementi architettonici, ma anche la loro costruzione morale. I rapporti che i cittadini tessono tra di loro e la città stessa, leggi e regole che governano, autogovernano o non governano. Ne descrive emozioni, odori, sapori, in modo mai uguale, per poi venire a scoprire che nulla di tutto ciò che l’imperatore Kublai Khan ascolta corrisponde ad un’ unica verità: perché tutte le città che Marco Polo ha descritto sono sempre la stessa, unica città. Un passo molto famoso dice che di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. E io, con Roma, la mia risposta l’ho avuta. Il secondo motivo è che Roma non è altro che una città mosaico, stratificata, a incastri e chiaroscuri. Esistono tante città dentro una sola. La mia Roma non è altro che una Venezia di Marco Polo”.

La serie dei tuoi scatti in mostra si intitola stressed out, cosa volevi trasmettere?  

Provenendo da una piccola realtà di paese, in cui la vita scorre lenta ed ordinata, uno dei primi “traumi”, di cui subito mi sono fatta carico, è stata la rapidità che caratterizza la città di Roma: il suo essere feroce, frenetico, incalzante. La scelta, e quindi l’approccio, del documentare la metropoli con una tendenza all’esasperazione e alla caricatura, deriva dalla mia stessa percezione amplificata dello stile di vita che ti impone. In un certo senso, di “Stressed Out”, sono testimone e partecipante attiva. Tutto ciò che in qualche modo subivo da parte della città, l’ho restituito in modo quasi vendicativo tramite delle fotografie dure e dirette, che trasmettono timore, sfiducia, paura e, appunto, stress. La mia stessa azione nel fotografare è stressante e disturbante per i luoghi ma anche e soprattutto per i soggetti, perché vengono aggrediti da un lampo di flash invadente e inaspettato”.

Eleonora De Nardis

Lascia un commento

error: Alert: Il contenuto è protetto!