La posizione straordinaria di Frattura la rende affascinante e sorprendente. Nel paese ci si conosce tutti, la vita diventa patrimonio comune, le esperienze di vita ci accomunano, si gioisce, si piange insieme. Da bambini per noi la vita era tutto un gioco, fatta di cose pratiche, manuali, umili, piccole, e l’affermazione sul gioco “Giocare e amare le gioie della vita”, si affianca perfettamente al nostro passato. I giocattoli si costruivano con materiale povero, non strutturato quale il legno, pietra, carta, cartoni, pezzi di alluminio ricavato da barattoli vecchi, pezze di tessuto. Ci ritrovavamo fuori del paese tra rocce scoscese dove venivano creati angoli arricchiti con erbe selvatiche, frutti di rovo. Eravamo a contatto diretto con la pioggia, il sole, la neve di cui subivamo l’influenza che traspariva dai visi scottati dal sole in estate, arrossati d’inverno, e le piccole mani screpolate dal gelo. Vi era in noi la gioia di scoprire. Le ombre della sera scendevano senza che noi ce ne accorgessimo non temendo il buio che ci apparteneva.
La memoria torna a ricordare i giorni trascorsi nella piccola scuola di montagna con il vociare dei bambini. L’estate tanto amata si allontanava e con essa il profumo del grano, la fragranza delle ginestre, il pigolare delle rondini. Indossavamo i grembiulini rigorosamente neri con colletti bianchi inamidati e fiocco azzurro. Le cartelle di cartone gommato si inzuppava alle prime piogge, erano leggere e il loro contenuto era di poco: due libri di lettura, il sussidiario, due quaderni con copertina nera uno a quadretti e uno a righe, per l’aritmetica e la lingua italiana, gomma e le penne con il pennino che si intingeva nell’inchiostro. Ritorna in mente la figura del bidello Nicodemo che ci accendeva le stufe di terracotta e apriva il portone massiccio della scuola. C’erano circa 50 bambini suddivisi in 2 pluriclassi e 2 maestri che attendevano i bambini con sguardo autorevole e nel contempo affettuoso per placare l’ansia del ritorno. L’odore del gesso aleggiava nell’aula, i bambini prendevano posto nei banchi ma sempre con lo sguardo verso la finestra. Tornano i ricordi al momento della ricreazione quando si mangiavano panini ben farciti con cibo povero ma gustoso.
Nella mente riaffiora il profumo del grano fasciato nei covoni ed ammucchiati nell’aia dove i bambini si rincorrevano, e con stupore guardavano i visi degli adulti che lavoravano duro, ma lieti per il buon raccolto. I bambini partecipavano al pranzo come ospiti d’onore e mangiavano con le mani coperte di polvere, terra, ma si leggeva nel volto un senso di soddisfazione e felicità. Spesso durante il lavoro si intonavano canzoni appartenenti al mondo contadino, piene di piacevoli armonie e melodie, che accomunavano tutti in un grande abbraccio di vita.
Quando terminava l’anno scolastico, il compito prioritario dei ragazzi era di vigilare le mucche che pascolavano in montagna. Si doveva evitare il danneggiamento dei campi coltivati che si trovavano in alta quota. Il sole batteva forte, la terra era molto polverosa e nera e noi ritornavamo a casa abbronzatissimi. Il periodo di provetti custodi di armenti terminava con la riapertura delle scuole a ottobre. I nostri genitori meritano un plauso per aver capito l’importanza della formazione culturale almeno fino alla scuola media. La scuola media era ubicata a Scanno e si raggiungeva con una corriera di linea appositamente istituita.
Quando cadeva abbondante la neve, la corriera stentava ad arrivare in paese e non si poteva andare a scuola e in qualche occasione ci si andava a piedi per non perdere le lezioni. Ovviamente arrivavamo a scuola abbastanza bagnati e gli insegnanti ci aiutavano ad asciugarci con le stufette elettriche. La nostra infanzia noi la definiamo “dell’attesa”, si attendeva la festa del Santo Patrono, il Natale, la Pasqua, poche feste ma desiderate e vissute con gioia e parsimonia. Noi che speravamo che non piovesse perché il nostro desiderio profondo era assistere alla proiezione del film in piazza, gli antichi colossal sembravano magia. L’omino del gelato che veniva solo il giorno della festa di San Nicola, ancora non si dimentica il sapore di cioccolato e ghiaccio. Si sottolinea le poche volte che si mangiava la carne.
Ci preparavamo al Natale già dal mese di novembre perché tutto ciò che serviva, sia per il presepe, che era il più gettonato, sia per l’albero, non veniva acquistato ma veniva dato dalla terra, si tagliava e costruiva a mano. Nelle belle giornate di novembre, dopo la scuola, si andava in cerca del muschio che cresceva sulle rocce ed emanava un profumo dolce e nel contempo aspro che ancora oggi è presente nel cesto dei ricordi. Nelle vie del paese si respirava il profumo dei biscotti cotti in uno dei due forni del paese, le frittelle (le fritte) che venivano preparate in casa per gustarle nel giorno della festa. L’albero di Natale veniva addobbato con mandarini, fichi secchi, arance, castagne e torroncini piccoli. Si scriveva la letterina di auguri ai nostri genitori e come da costumanza antica veniva nascosta sotto il piatto a pranzo e si aspettava il piccolo soldino che ci regalavano. La sera della vigilia della Befana si mettevano le calze di lana nascoste nelle case di parenti e amici che le riempivano di leccornie gustosissime In inverno quasi sempre cadeva tanta neve ma ciò non ci impediva di uscire, era la nostra compagna di giochi preferita. Con il ritorno della primavera, e il risveglio della natura che profumava le strade di erba fresca, di violette e rose, arrivava la Pasqua. Si preparavano, con la pasta dolce dei biscotti, le pupe per le bambine e i cavallucci per i maschietti.
Dal libro “A raccontar Frattura” di Armando Iafolla e Luciana D’Alessandro. Foto Enzo Gentile.