Solitamente il distacco avveniva nel silenzio più assoluto. E solo noi bambini, sotto i sei anni, riuscivamo ancora a sentire le loro voci acute e stridenti, tipiche di quell’allora semplice, chiassosa e frettolosa fanciullezza. Si andava via come esili fili d’erba al vento per un nonnulla: a causa di una sconosciuta infezione, una bronchite, un inaspettato aggravamento, o per la solita ricorrente influenza, mentre quasi a tutti venivano tolte le tonsille, cosa assolutamente non gradita a cui però seguiva una bella ricompensa. Infatti, se facevi il bravo, potevi mangiarti tanti di quei gelati al caramello di Erminio, da fare invidia a tutti i tuoi compagni. Erano i primi anni ’60 e il rassegnarsi al pensiero di non potersi più rivedere e di non poter più giocare insieme, non rientrava affatto nel nostro modo di comprendere: quegli addii erano come un arrivederci, preceduti da una croce con un piccolo fazzoletto bianco. E allora regolarmente ci domandavamo: perché, e così presto? Dove sarebbero andati i nostri angeli? Dove e con chi avrebbero continuato a correre, a urlare e divertirsi? Non abbastanza persuasi che nostro Signore avesse in qualche modo bisogno di noi, come ci insegnavano al catechismo, il nostro istinto ci portava comunque a sperare che ciò non avvenisse mai e che il nostro eventuale stato febbrile da raffreddore potesse svanire al più presto. A riguardo era buona educazione, le nostre mamme ci tenevano molto, andare a trovare a casa i nostri amici malati per dare loro un po’ di compagnia, per i compiti di scuola ed anche, perché no, approfittarne per fare merenda.
Di conseguenza, questo stare spesso insieme, ci faceva ammalare tutti ma ciò veniva considerato un bene e, una volta guariti, si era diventati anche più alti. In caso contrario, quando le cure del tempo non avessero dato buoni risultati poiché inadeguate e quindi inutili, era quasi normale diventare un angelo, più o meno colpevoli per non essere stati abbastanza forti e resistenti. Noi altri dunque, superstiti per pura fortuna, abituati ad essere a quell’età spesso sgridati per via della nostra inevitabile vivacità, non potevamo di certo sapere e tanto meno capire. Fatto sta che ci si metteva poco a dimenticare talmente presi da tutto il da farsi: servir messa, la scuola, la prima comunione, altri giochi e nuove amicizie.
Alla fin fine, se riuscivi a superare ogni malanno, era più che normale e si andava avanti come se nulla fosse, considerando anche che le famiglie erano molto numerose con mediamente 3/4 figli, per arrivare in alcune a circa 8/10. Pertanto qualsiasi situazione era in qualche modo affidata al solo volere di Dio. E così, ad ogni dipartita di qualche amichetto, con i cuori pieni di tristezza e di quel senso inspiegabile di paura, in cerca di sollievo, non potevamo che affidarci alle seguenti parole di zia Ada: “fate i bravi, siate buoni e rispettosi verso i vostri genitori e il prossimo, non dimenticate di recitate le preghiere prima di andare a letto…e andate a messa, mi raccomando. Ognuno di voi ha il suo angelo custode che vi conosce alla perfezione e vi è sempre vicino, vi protegge, vi aiuta e vi sostiene”. Tuttavia non del tutto convinti e alquanto confusi, ci restava piuttosto difficile immaginare se si trattasse proprio di un nostro coetaneo, quale fosse il suo aspetto, il suo nome e da dove venisse.
A ripensarci bene c’era un luogo nella parte bassa del camposanto riservata proprio a loro, erano lì segnalati da quei fazzoletti bianchi, agitati dal vento, a ricordarci la loro innocenza, purezza e ancor più il loro essere angeli. In seguito, questa usanza per tenerli insieme, ben presto finì; d’altronde gli angeli non hanno confini, sono liberi e sono dappertutto. Spesso citati come protagonisti per lo scampato pericolo, li vediamo tranquilli a sorreggere e abbellire gli altari, nei dipinti più famosi nonché nei quadri appesi nelle camerette a darci sicurezza e coraggio nell’affrontare il buio della notte e per non farci mai sentire soli.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione