Chi potrà mai dimenticare i “fruttecielle” delle Signurelle, “le mastacciola” di Venanzio e i “pasticciotti” con la crema di Angiulella? E che profumo per la valle! Bontà indiscusse di genuina alta qualità che in qualche modo hanno segnato i nostri gusti e, se non altro, hanno aggiunto valore alle nostre feste e soprattutto ai matrimoni. Questi caratteristici dolci locali erano il frutto di anni e anni di ricerche e sperimentazioni. Alla fin fine gli ingredienti erano noti a tutti ma, senza dubbio, mancavano di quel tal segreto mai rivelato a nessuno nemmeno sotto tortura. Sapori tutti da gustare. Ed è proprio per questo che diventarono da subito famosi, unici e molto apprezzati.
Ai “cumplemiente” i bambini la facevano da padrone sprizzando felicità da tutti i pori, scatenati come non mai con la bocca sempre sporca di cioccolato, il naso segnato di bianco dello zucchero a velo e le mani tutte appiccicate, tanto da entrare a far parte già da piccoli della folta schiera dei cosiddetti: “vocca sapreta”. Anche gli adulti non erano da meno e le cravatte striate di bianco ne attestavano l’avvenuta gradita degustazione. Inoltre, gli ospiti forestieri ne facevano scorta per offrirli probabilmente ai loro amici e parenti, così da pubblicizzarli come prodotti tipici da assaggiare assolutamente quando si andava in visita a Scanno, ovviamente insieme ai primi gelati al cono al bar di Simone in Viale del Lago.
Negli anni ’60, nella maggior parte delle nostre case, il dolce era un oggetto sconosciuto, fatta eccezione nel periodo intorno a Natale e Pasqua. Si cominciava con la pizza di San Martino con i “quetrene”, poi “le sanghedoice” all’uccisione dei maiali e i “fritte de carnevale”, per passare alle pizze “ndremmappa ch’i sfrittule”, e quindi alle ciambelle ed ai biscotti pasquali con i “nesene” a forma di bambola, gallo e cavalluccio, il tutto di buona cucina casareccia, ma non comunque il massimo della pasticceria, che sicuramente era altra cosa.
Ciò nonostante la presenza di questi prodotti era comunque ben gradita e dava allegria e, se magari venivano farciti con un po’ di Nutella, erano senz’altro apprezzati ancor di più quanto bastava, se ce ne fosse stato bisogno, per avvalorare ulteriormente la nostra fama di “vocca sapreta”. In proposito, non si è mai capito se questo enunciato fosse inteso in senso negativo o positivo, e cioè se esprimesse una riconosciuta forma di ingordigia o se fosse un vero e proprio attestato di merito per veri intenditori amanti di tutto ciò che è bello e raffinato. E se qualcuno si intendesse anche di belle donne, non era di certo fuori tema. Fatto sta che, nel sentirselo dire, ci creava quasi sempre un certo imbarazzo. Indubbiamente molto dipendeva anche dalle circostanze, il più delle volte in effetti noi ragazzi venivamo addirittura tacciati come scostumati, sorpresi in piena azione con la bocca strapiena. Chissà perché la medesima condizione non valeva per le ragazze! A dire il vero molti di noi non riuscivano a contenersi e, se pur satolli, spesso esageravano. Infatti durante i rinfreschi, nel dribblare i camerieri, si faceva a gara a chi riusciva ad accaparrarsi più dolci possibili, riuscendo a svignarsela in un baleno sotto alle guantiere. I pranzi di nozze non finivano mai ed era quasi improbabile consumare tutto quel ben di Dio tant’è che era uso, ad un certo punto, utilizzare la carta oleata per impacchettare principalmente la carne da mettere nelle buste per portarsela a casa.
Ma il momento più atteso era il taglio della torta che, dopo il solito: bacio, bacio e le immancabili fotografie con tutti i parenti, amici e conoscenti, finalmente finiva sotto le nostre grinfie e non aveva più scampo. Ed è proprio qui che davamo tutto il nostro meglio per buona pace dei trigliceridi, colesterolo e chili di troppo. E mentre la maggior parte degli invitati si gustava con sommo piacere la cosiddetta “pizza doice” senza fiatare, nelle sale regnava uno strano silenzio da buongustai (quando si mangia non si parla) da far onore al primo dei “vocca sapreta” ma soprattutto a chi, con grande maestria, ha confezionato una così eccellente prelibatezza. Questo tanto atteso momento purtroppo non durava molto poiché veniva interrotto dal solito invito al cin, cin d’augurio, a cui seguiva un sonoro viva gli sposi e tanti hippipì hurrà per tre volte e tre volte ancora anche per i genitori degli sposi che ovviamente offrivano il pranzo.
Ma c’era chi, come un mio amico di cui è meglio non fare il nome, riusciva a estraniarsi da tutto, concentrato com’era a gustarsi ancora un altro bel pezzo di torta concedendo più di un bis, tanto d’arrivare a battere persino il più ghiotto dei nostri orsi, convinto di non far nulla di male, piuttosto partecipe nell’esorcizzare a suo modo questa nostra vita che spesso tanto dolce non è.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione