Ammettere di essere fifoni e dimostrarsi tali non rientrava nel modo più assoluto nei nostri pensieri, tantomeno nei nostri comportamenti. Noi nati negli anni ’50 credevamo che il coraggio fosse la cosa più normale al mondo e che quindi tutti i bambini nascessero già intrepidi e forti. Il bello stava nel dimostrarlo. Infatti ci sembrò subito chiaro che il continuo confronto con gli altri coetanei di 10/12 anni non sarebbe stato affatto semplice e che non si sarebbe risolto solo a parole.
Una delle prime prove di forza consisteva nel lanciarsi da un ramo di un albero per afferrarne un altro tipo Tarzan nella giungla. Ci provò Franchino nei pressi dell’Edificio ma si schiantò rovinosamente a terra dopo solo qualche tentativo. Rischiando di brutto, l’inevitabile risultato fu un vistosissimo bernoccolo sulla fronte e diverse fratture ad un braccio. Altra stupidaggine, ancora più pericolosa, era quella di correre lungo il cornicione che delimitava l’aia di “Sant’Angiula” con il rischio di cadere giù, oppure di discendere il muraglione attiguo aggrappandosi alle radici dell’edera per recuperare il pallone, o anche la brutta idea di far scoppiare sul posto dei barattoli imbottiti di polvere da sparo. E come non citare le discese a capofitto giù per quelle rapidissime scarpate nei pressi “della muntagnella”…Ah! Se quelle capanne, costruite alla meglio con rami e frasche, potessero parlare! Era comunque tutto un gioco, compreso morire per finta in uno scontro con gli “indiani”, o rischiare un orecchio a scuola quando Carmelo, munito di forbici, s’improvvisò parrucchiere nei confronti di Donato, di sprofondare inoltre in fondo al Varichitto per pescare o per recuperare pezzi tra l’immondizia, e perfino quando noi di San Martino insieme a Cardella andammo in “guerra” contro quelli della Plaja a colpi di bastoni e pietre. Oltre la scuola, che giorni frenetici quei giorni!
Altre prove ci attendevano; più impegnative e complicate come quella di affrontare il buio o andare di notte al cimitero. Tanto per dirne una, al portone di zia Enedina alla Racilletta i più grandi, nell’androne tetro e polveroso, avevano sistemato su un palo una zucca con dentro una candela accesa, sembrava veramente un teschio che si muoveva; davvero terrificante da non dormirci la notte. E poi al camposanto; si sarebbe dimostrato più coraggioso, principalmente al cospetto delle ragazze, chi fosse riuscito, sotto la luna piena e a tarda ora, a toccare il suo freddo cancello d’ingresso, specialmente se accompagnati dalla visione dell’ossario e di quello strano cranio impressionante di donna con ancora le lunghe trecce di capelli attaccate e addirittura con la bocca piena di denti. Quasi sempre, ad impresa compiuta, sul d’avanti dei pantaloni appariva una bella macchia scura…Come non dirlo: anche le scarpe erano bagnate, prova lampante di aversela fatta ancora una volta addosso.
Ci andava bene però quando ce la prendevamo con quelli più piccoli di noi, con le lucertole a cui tagliavamo la coda o con i rospi a cui mettevamo in bocca una sigaretta accesa, anche con i cani e i gatti a cui legavamo dei barattoli, per finire con la “zirra” (scarabeo verde) legata ad una zampa con un filo. Tutto fin troppo semplice e facile come rubare le mele a Cherubino.
Ma ora passiamo alle cosiddette imprese sportive come quella di Stacco che, per dimostrare la sua destrezza nell’andare senza mani ma con i piedi sul manubrio della sua bicicletta, finì la sua corsa paurosamente nel fossato al bivio di Frattura rompendosi, per fortuna, solo un braccio con una miriade di escoriazioni su tutto il corpo. Colpa dell’asfalto bagnato? E come la mettiamo con quegli altri che con gli sci si fratturavano ora un piede, ora una gamba? Altra impresa, pericolosissima, quando ci si attaccava alla sponda dei camion in corsa. Altri episodi caratterizzarono le nostre giornate alla Foce, dove per saltare il fiume con un’asta spesso si cadeva in acqua. Stesso risultato quando, per dimostrare chi era il più forte, ci si prendeva a pugni senza curarsi minimamente di essersi completamente bagnati, in attesa del “resto” a casa.
Ma la prova più difficile era tutta lì nel gioco della bottiglia con le ragazze quando, con un po’ di paura e il cuore a mille, speravi che toccasse finalmente a te… alquanto impacciato non sapendo come fare, ma infinitamente felice di darle un bacio.
Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione